Seconda offerta agli dei della recensione in due giorni nella vana speranza di aumentare le letture dei post di questo blog, e quale pellicola migliore da immolare ad un antichissimo culto pagano se non “Indiana Jones e Il tempio maledetto”, che guarda caso è il secondo film dell’omonima serie e parla proprio di sacrifici fatti ad un antichissimo culto pagano.
Come abbiamo visto ieri il primo Indy non è stato esattamente un granché come film, ma se Hot Shots 2 ci ha insegnato qualcosa è che i sequel possono essere migliori dell’originale.
Vale lo stesso discorso anche per il Professor Jones? Più o meno.
Anzitutto cominciamo con una sorpresa: prima di dare inizio a circa 1 ora e 58 minuti di fughe (come al solito) Spielberg ci piazza là in apertura un bel musical cinese. A cosa serve? Praticamente a nulla se non a giustificare l’odiosa presenza del piccolo aiutante asiatico Shorty (interpretato da Data dei Goonies), messo lì dalla produzione con il solo scopo di fornire al pubblico più giovane un personaggio in cui immedesimarsi, poi già che ci sono gli fanno fare qualche mossa di karate che nelle produzioni anni ‘80 ci sta sempre bene.
Il film è ambientato nel 1935, cioè un anno prima degli eventi dell’Arca perduta, e questo moccioso insopportabile risulta essere il migliore amico inseparabile di Indiana Jones, così inseparabile che nel 1936 (e anche dopo) non esisterà più, ergo mille punti in meno per la relazione Batman-Robin che dobbiamo sorbirci inutilmente in questo capitolo.
Rispetto al primo capitolo si sono ricordati di aggiungere una bozza di trama tra una fuga e un’altra, il che è un piccolo miracolo. La sceneggiatura, opera di George Lucas (uno che di trame inconsistenti se ne intende), dovrebbe essere, stando alle sue stesse dichiarazioni, più cupa poiché scritta durante il suo divorzio. Quindi, ad occhio, quando Lucas è triste scrive gag slapstick comedy, si immagina sulle montagne russe e pensa a sorbetti di cervello di scimmia. Molto bene.
A proposito: nei miei ricordi di bambino la scena della cena a base di schifezze era molto più divertente, in compenso tutte le allusioni sessuali tra Indiana e la protagonista femminile Willie risultano clamorosamente spinte per essere un film per bambini se comparate a ciò cui siamo abituati nel 2020.
A proposito, round 2: Spielberg e Lucas decidono, con mio sommo dispiacere, di cambiare la protagonista femminile che passa da essere Karen Allen alla quasi sconosciuta Kate Capshaw. Mille punti in meno perché non posso più ricordare Animal House ma suppongo che per Spielberg si tratti di mille punti in più, visto che proprio dopo aver conosciuto la Capshaw su questo set se la sposa. Evidentemente vederla limonare duro con Harrison Ford ha aiutato.
Cosa dire del film in generale? C’è un leggero miglioramento rispetto al primo Indy: l’assenza quasi totale di trama pesa un po’ meno, ma il ragazzino asiatico è insopportabile e viene letteralmente spinto giù per la gola del pubblico dallo sceneggiatore che sembra sempre dire: “Visto? C’è il ragazzino! Fa anche karate! Che ridere, eh? Eh? Eh? Eh? Forte no? Visto che fa karate?”
Restano comunque apprezzabili gli utilizzi di bestiacce varie (niente CGI baby) e la costruzione di set maestosi, senza contare il Bar Obi Wan che si vede durante la prima fuga dal ristorante cinese, cosa apprezzata da tutti noi nerd fan di Star Wars.
Purtroppo manca quel qualcosa per la sufficienza piena ma siamo sulla strada giusta. Presto vedremo come un certo Sean Connery aiuterà nel miracolo di far trovare ad Indiana Jones la reliquia più preziosa di sempre: una trama.
Giudizio finale
Indiana Jone e il tempio maledetto: voto 5,5
Francesco Mandolini
Un pensiero su “Indiana Jones e il divorzio maledetto”